venerdì, dicembre 01, 2006

Sull'opera di Joyce - I

Il grande scrittore irlandese, J. Joyce, nel suo capolavoro Ulisse descrive, in parallelo con l' Odissea, la vacuità dei tempi moderni, l'assenza di qualsiasi eroicità nella vita dell'uomo costruendo un confronto che mette di più in evidenza la nullità, la azioni pseudo-eroiche, la semplice ripetitività della vita. (I passi sono tratti da Ulisse - ed. Mondadori)
La faccia vuota del ragazzo interrogò la finestra vuota.
(pag. 25)
L'Ulisse non è solo questo, è un poema complesso, ricco di riferimenti inter-, intra- ed extra-testuali, che ci consegna lo squarcio della vita di uomini scandita da piccole violenze, incomprensioni, incomunicabilità, rimorsi, paure, solitudini.
Lionello Simon, cantante, rise. Padre Bob Cowley suonò. Mina Kennedy servì. Il secondo signore pagò. Tom Kernan entrò pavoneggiandosi. Lydia, ammirata, ammirava. Ma Bloom cantava senza voce.
(pag. 269)
Con uno stile incisivo, complesso, proteiforme, che evolve durante lo svolgimento dell'opera, l'Ulisse non viene dimenticato, diviene un testo di riferimento per tutti quelli che vogliono comprendere le possibilità (ed impossibilità) comunicative della lingua, basti ricordare Svevo, Calvino, Eliot, Eco, D'Arrigo e molti altri.
La babelica costruzione di alcuni capitoli, con diversi stili contrapposti, sembra affermare un fallimento delle normali strutture comunicative, in cui la destrutturazione della sintassi convenzionale, sintomo anche della distruzione della società, ben si lega alla complessa e lacerata situazione personale dei singoli protagonisti e dell'ambiente in cui orbitano le loro vite.