mercoledì, maggio 31, 2006

Sulla memoria

Pasolini, nel suo cortometraggio La Ricotta, fa in modo che il regista Orson Welles reciti questa poesia ad un giornalista:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.
La decadenza dell'uomo moderno è anche nel non aver memoria del proprio passato, nel sentire le cose trascorse come semplici frammenti che, come cocci rotti, si credono inutili. La forza del passato che proviene dai ruderi di distrutte civiltà, possiede internamente una modernità che non è quella banale del progresso ma quella più interessante della saggezza.
Mi viene in mente un bellissimo passo di Pavese tratto da Il mestiere di vivere:

Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato.
Si diventa creatori - anche noi - quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia
Il popolo non può crescere se perde quella voglia di guardare indietro al fine di ottenerne un insegnamento per il futuro. La frase di Pavese non è solo un rifacimento moderno del ciceroniano "Historia magistra vitae", ma indica anche come la perdita delle proprie radici rappresenti per l'uomo una perdita di una parte di se stesso, il "destino" dell'uomo rappresenta una ricerca di sè che comporta sempre un ritorno alle origini.
A tal proposito, sempre di Pavese, mi viene in mente la poesia che dice:
(Da Cesare Pavese - Poesie, ed. Einaudi)
Questo è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
Nella bella città, in mezzo a prati e colline,
E la sfumano come un ricordo.[...]
Val la pena aver fame o essere stato tradito
dalla bocca più dolce, pur di uscire a quel cielo
ritrovando al respiro i ricordi più lievi.
(pag. 63)
Qui il ricordo rappresenta una sfumatura del mondo che permette di donare, per un fugace istante, una dose di levità, permettendoci di affrontare meglio il mondo che intorno ci stringe.
A volte i ricordi sono però grossi macigni che rotolano dentro di noi, trasportando paure e sofferenze mute.

sabato, maggio 27, 2006

Sulla noia di vivere e sull'esistenza - I

La noia è uno stato dell'anima a cui alcuni grandi autori hanno dedicato opere intere o semplicemente dei versi.
Il primo autore che mi viene in mente è Moravia che scrisse un bellissimo romanzo proprio intitolato La noia. Qui, questo stato interiore, viene dipinto come risultato dell'impossibilità di instaurare con gli oggetti un rapporto autentico.
(i passi sono tratti da La noia, ed. Bompiani)

"La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. [...] un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c'è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all'appassimento e alla polvere."
(pag. 7)
Moravia influenzato dagli esistenzialisti, primo fra tutti Sartre, dipinge un uomo, Dino, alienato della realtà, incapace di una vita autentica, un eroe sveviano, privo cioè di qualsiasi eroicità. Dino è sopraffatto dal mondo che lo circonda e se ne sente, nello stesso momento, privato.
La noia, questo avvizzimento del reale, che sembra rievocare alcuni quadri di Dalì, ci fa vivere in uno stato in cui, da una parte vogliamo ottenere un rapporto autentico col mondo, ma dall'altro ci rendiamo conto che i nostri sforzi sono velleitari.
Sartre nel suo stupendo racconto-diario, La nausea, ci dona, con sofferente schiettezza, l'immagine di un uomo angosciato dalla propria esistenza vuota e ripetitiva, che non riesce a vivere serenamente con il mondo che lo circonda. Scrive:
(passi tratti da La nausea, ed. Einaudi per Repubblica)
"Non trovo più gusto a lavorare, non posso fare altro che aspettare la notte"
(pag. 29)

"La nausea non è in me: io la sento nel muro, sulle bretelle, dapertutto intorno a me. Sono io che sono in essa"
(pag. 31)
Ci rendiamo conto di quanto la noia, da puro stato interiore, divenga parte del palcoscenico nel quale ognuno di noi recita. La noia si trasforma in uno stato di angosciante insoddisfazione ed inadeguatezza.
Concludo ricordando un altro passo del libro di Sartre in cui, sul suo diario, il protagonista, Antoine Roquentin, scrive un giorno:
"Niente, esistito"
(pag. 130)
Siamo di fronte ad una vita piena di vuoti, di assenze e spesso anche la nostra giornata si riduce ad un foglio tristemente vuoto che cerchiamo di riempire ma, con la sua sottile ironia, ci guarda nella sua perfezione intangibile e ci mette di fronte ad un triste verità.

giovedì, maggio 25, 2006

Sull'opera di Pasolini - I

Pasolini nei suoi Scritti Corsari - 9 dicembre 1973 scrive:
"Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro "cattivo" nelle periferie "buone" (viste con dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani)"
e ci vengono in mente i trascorsi avvenimenti nelle periferie francesi non lontane poi troppo dalle nostre.
Continuando:
"Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane."
Pasolini continuando nel suo discorso, mette in evidenza come la nuova cultura sia prettamente tecnologica e porti al "rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali". La televisione è, per Pasolini, "lo spirito del nuovo potere", uno strumento per esercitarlo (e ci viene in mente 1984 di Orwell dove rappresenta anche uno strumento di controllo del tempo), che ha lacerato l'animo del popolo italiano più del Fascismo.
La televisione richiede spettatori, soggetti passivi nel processo comunicativo e produce una omologazione dei costumi e degli usi che è preoccupante. La nostra passività non ci permette di esprimere le nostre diversità che arrichiscono il mondo.
La crescita tecnologica non ha avuto un giusto corrispettivo nella crescita delle coscienze. L'individualità è qualcosa che va tutelato e siamo noi stessi a dover preservare un valore che credo fondamentale: la diversità non scandalizzata, priva cioè di luoghi comuni e ricca di vicendevole tolleranza.

martedì, maggio 23, 2006

Sull'opera di Borges - II

Borges in La rosa gialla scrive, parlando di Giambattista Marino
(I passi sono tratti da Tutte le opere, ed. Meridiani - Mondadori)

"Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa, come poté vederla Adamo nel Paradiso, e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d'oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo."
(Vol. I - pag. 1141)

O anche in L'altra tigre:

La sera mi si diffonde nell'anima
e penso che la tigre dei miei versi
è una tigre di simboli e di ombre,
una serie di tropi letterari
e di memorie d'enciclopedia,
non il fatale tigre, funesto diamante
che, sotto il sole o la diversa luna,
va compiendo in Sumatra o nel Bengala
il suo rito d'amore, d'ozio e morte
(Vol. I - pag. 1205)
e continuando:

Cercheremo una terza tigre. Questa
sarà come le altre una figura
del mio sogno, un sistema di parole
umane e non la tigre vertebrata
che, oltre tutte le mitologie,
preme la terra. Lo so, ma qualcosa
m'impone questa avventura imprecisa
antica ed insensata, e io mi ostino
a cercare nel tempo della sera
un'altra tigre, che non sta nel verso.
(Vol. I - pag. 1207)
Nell'ultima parte dichiara lucidamente l'impossibilità di possedere quella tigre "che non sta nel verso", e definisce "antica ed insensata" la sua avventura di oltrepassare tale limite. Queste parole ci fanno riflettere sull'arbitrarietà che ha il linguaggio e di come questo ci permetta solo di indicare qualcosa e non di penetrarne l' essenza.
Forse con la realizzazione di una fitta rete di allusioni, come hanno fatto illustri poeti ( Pound, Eliot, Rilke...), o col verso ungarettiano che squarcia il silenzio, è possibile travalicare i limiti intrinseci del linguaggio.
Leggendo le precedenti righe di Borges mi viene in mente la conclusione de Il nome della rosa:

"stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus."

la cui traduzione è "l'antica rosa rimane nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi".
Questo è un verso del De contemptu mundi di Bernard de Morlay riadattato da Umberto Eco per concludere sapientemente la sua opera.
In realtà, l'originale a cui si ispira Eco, è una riflessione su come, delle cose del passato, non ci rimanga altro che il nome e non lo splendore.
La frase, vista sotto un altro punto di vista, racchiude un senso di profondo sconforto nei confronti dei limiti della conoscenza umana e della sua rappresentazione.
Il linguaggio rappresenta un modo che ha l'uomo di esprimere il mondo che lo circonda e se stesso, ma possiede dei limiti intrinseci ed il tentativo di oltrepassarli porta a risultati di vibrante "poesia".

domenica, maggio 21, 2006

Alla ricerca del Tempo Perduto - II

Proust scrive, parlando della nonna del Narratore:
(Alla Ricerca del Tempo Perduto - ed Meridiani, Mondadori)

"quando doveva regalare una poltrona, delle posate, un bastone, li cercava "vecchi", come se, cancellato ormai dalla lunga desuetudine il loro carattere utilitario, apparissero disposti a raccontarci la vita di uomini di altri tempi più che a soddisfare i bisogni della nostra. Cercava di giocare d’astuzia e, se non di eliminare del tutto la banalità commerciale almeno di ridurla, sostituendola il più possibile con altra arte, inserendo per così dire svariati “spessori” d’arte [...]
Di fronte all’imminente scadenza della volgarità la nonna tentava di rimandarla ancora." (Vol. I - pag.50)

Il concetto di utilità qui viene considerato un involgarimento; quello che infatti la nonna vuole stimolare nel beneficiario del regalo è un ispessimento del senso della bellezza artistica, privata appunto, da quei concetti di utilità ed utilizzo che un oggetto possiede.
Mi viene in mente, primo fra tutti, un artista che ha fatto dell'oggetto in quanto tale, privato delle sua finalità, fulcro della propria arte: Marcel Duchamp.
Egli scrive, fingendo di difendere l’ignoto autore di un opera rappresentante un "comune" orinatoio di porcellana, che in realtà è poi diventata la sua opera più famosa (Fontana, 1917)

"Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto"


E' ovvio che di fronte ad un regalo, come una sedia vecchia, oppure ad un orinatoio, è per noi difficile credere che possa essere arte o comunque che possa possedere una carica artistica che sovrasti quella utilitaristica, è però anche vero che lo scandalo nasce dall'incomprensione e dalla paura di vedere messe in discussione le proprie certezze.

giovedì, maggio 18, 2006

Sul mito e la mitologia - II

Il mito nasce come bisogno dell'uomo di comprendere la realtà che lo circonda.
Molte delle vicende umane e naturali, che si sono succedute nei secoli, hanno visto un corrispondente mitico che permettesse agli uomini di comprenderle appieno e di accettarne le conseguenze.
L'uomo antico possiede come modello uomini forti il cui coraggio è impresso nelle opere senza tempo dell'Iliade, dell'Odissea, dell'Eneide, delle leggende Celtiche ecc.
Durante il '900 alcuni autori hanno riutilizzato temi mitici, pieni quindi di quella sacralità che la storia gli ha conferito, per mettere in evidenza il degrado, la ripetitività, l'assenza di ideali forti dei propri tempi.
Eliot nella recensione che fa dell'Ulisse di Joyce scrive:
"Nell'usare il mito, nel manipolare un continuo parallelismo fra il mondo contemporaneo e il mondo antico Joyce sta seguendo un metodo che altri devono seguire dopo di lui [...]. E' semplicemente un modo di controllare, ordinare, dare forma e significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea [...] invece del metodo narrativo, noi possiamo ora usare il metodo mitico"
Il mito qui diviene un mezzo per mettere in ridicolo la realtà, senza che esso possa rivelare nulla, se non l'attesa, sempre tradita, di una vita eroica. Vengono così in mente le opere di De Chirico, dove il silenzio e l'attesa sono i protagonisti principali; la snervante e solitaria attesa del Deserto dei Tartari di Buzzati; il paesaggio desertico delle poesie di Sbarbaro; l'attesa Beckettiana dell' Aspettando Godot e molti altri.
Eliot, tra i più grandi poeti del '900, ci ha donato un' opera con un'elevatissima carica espressiva dove, già con il titolo, The Wasteland (terra desolata), dichiara con forza il paesaggio che si presenta all'uomo moderno: devastazione e lacerazione, che si ripercuotono anche nel linguaggio utilizzato (frammentario e lacerato).
Il testo è tratto da "La Terra Desolata", ed. Rizzoli
"Nell'ora violetta, quando gli occhi e la schiena
Si levano dallo scrittoio, quando il motore umano attende
Come un tassì che pulsa nell'attesa,
Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite,
Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere
Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende
Il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto.
La dattilografa a casa all'ora del tè, mentre sparecchia la colazione, accende
La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.
Pericolosamente stese fuori dalla fìnestra
Le sue combinazioni che s'asciugano toccate dagli ultimi raggi del sole,
Sopra il divano (che di notte è il suo letto)
Sono ammucchiate calze, pantofole, fascette e camiciole.
Io Tiresia, vecchio con le mammelle raggrínzite,
Osservai la scena, e ne predissi il resto - "
(pagg. 103-104 - vv. 215 - 229)
Eliot esegue quello che Joyce fa con la prosa e Beckett con il teatro: una destrutturazione delle normali forme di espressione alla ricerca di un linguaggio più vicino all'intimo dramma dell'uomo, alla sua lacerazione interiore ed utilizza il mito come viatico per una lucida dimostrazione della nostra futilità ed inettitudine.


mercoledì, maggio 17, 2006

Sul mito e la mitologia - I

Ricordando i versi di Dante che ispirano questo blog, mi ritrovo a rileggere un passo delle Metamorfosi di Ovidio in cui, parlando della creazione dell'uomo, scrive:
(il testo è tratto da "Le Metamorfosi" Publio Ovidio Nasone, ed. Einaudi)

"mentre gli altri animali stanno curvi e guardano il suolo, all'uomo egli dette un viso rivolto verso l'alto, e ordinò che vedesse il cielo e che fissasse, eretto, il firmamento. Così, quella terra che fino a poco prima era grezza e informe, subì una trasformazione e assunse figure mai viste di uomini"
(pag. 9)
La nascita dell'uomo, secondo alcuni miti, è avvenuta grazie a Prometeo che, plasmando dalla creta delle statue con sembianze umane, infuse in esse la vita (ricorda per certi aspetti il mito ebraico del Golem).
Poco più in là nel testo, Deucalione (figlio di Prometeo) e Pirra si ritrovano, soli esemplari del genere umano, sopravvissuti al diluvio universale per volere di Zeus. Con che pathos Deucalione si rivolge a Pirra dicendo:

"Oh se avessi la dote di mio padre, di plasmare della terra e infondervi la vita, e potessi rifare i popoli! Ora il genere umano è ridotto a noi due, così è parso agli dei, e noi siamo gli ultimi esemplari."
(pag 23)
Il "sic visum superis" rappresenta una rassegnazione dignitosa nei confronti del destino. E' quella fierezza che l'uomo deve avere nell'affrontare le prove che la vita gli presenta. Sembra quasi evocare il passo di Leopardi della Ginestra:

E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
L'uomo, conscio della sua condizione di sofferenza non può che accettare questa verità con fiera rassegnazione.
L'uomo che Ovidio rappresenta nella sua opera, non importa se mortale o divino, è sorretto da passioni, da sentimenti che, spesso, lo portano a scontrarsi con i tabù, con la convenzione.
La metamorfosi, atto della trasformazione in qualcosa di diverso da sè, sembra un comportamento in uso anche ai giorni nostri dove, il continuo cambiamento, il seguire sempre nuove mode, in alcuni casi scade nell'omologazione, portando alla perdita di una parte di se stessi.





Sull'opera di Borges - I

Borges, autore orginale e da una cultura enciclopedica, fa trasparire nelle sue composizioni un culto particolare per il libro, per la documentazione. Leggere una sua opera vuol dire trovarsi immerso in una miriade di riferimenti sfuggenti. I passi sono tratti da Tutte le opere ed. Meridiani - Mondadori
Nella Biblioteca di Babele scrive:
"L'universo (che altri chiama la Biblioteca) "
(Vol I - pag. 680)

"Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell'alfabeto. Stabili, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch'è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell'avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione del catalogo falso, l'evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri."
(Vol I pagg. 683-684)
A questo punto si potrebbe pensare alla Teurgia Ebraica basata sull’idea che ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico, con cui Dio ha creato il mondo, rappresenti un Essere Vivente, un Geroglifico, un’Idea, un Numero. Combinare le lettere significerebbe allora conoscere leggi e fondamenti della Creazione. Si potrebbe sorridere leggendo il "Pendolo di Foucault", dove Eco ritrae alcuni personaggi che, con un programma informatico, effettuano tutte le permutazioni delle lettere che compongono il nome di Dio (il Tetragramma divino), in questo modo credono, scherzando, di stare ottenendo tutta la scienza possibile per gli uomini.
A me interessa, invece, riutilizzando la "metafora" di Borges, mettere in evidenza come il mondo sia un' immensa biblioteca di cui ogni cosa è una semplice casuale parola presente in un remoto libro di un irragiungibile scaffale. Certo questa affermazione è molto triste, se ci riflettiamo, a questo punto ci fa rendere conto della nostra eterna piccolezza. Pirandello nel suo "Fu Mattia Pascal" scrive:

"Maledetto sia Copernico! - Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. - C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava... - E dàlli! Ma se ha sempre girato! - Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. [...] Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari.[...] Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? [...] E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili."
Il discorso della perdita, da parte dell'uomo, di certezze di superiorità sulla natura tutta, è un tema abbastanza vasto che potrebbe facilmente sfociare nella crisi che l'uomo ha di volta in volta affrontato nei periodi storici in cui una teoria consolatoria o comunque forte, si è vista spiazzare dal dubbio.
Vorrei solo ricordare ciò che dice Lawrence nel suo commentario all'Apocalisse

"È mera presunzione credere che noi vediamo il Sole così come lo vedevano le antiche civiltà. Tutto ciò che vediamo al posto del Sole è un piccolo corpo di luce fisica, un globo di gas ardente. […] Noi possiamo ancor oggi vedere quello che chiamiamo Sole, ma Helios lo abbiamo perduto per sempre, e ancor più il grande disco dei Caldei"

ciò che deriva dalla perdita di certezze non è certo il leopardiano naufragio, ma serve all'uomo per rendersi conto della propria fievole esistenza.



martedì, maggio 16, 2006

Alla ricerca del tempo perduto - I

Mi appresto alla lettura di una pietra miliare della letteratura mondiale : "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust.
In questo post ed in quelli che seguiranno con questo titolo annoterò alcune frasi che mi hanno colpito. Tali parole sono per me ed "i miei venticinque lettori".
I passi sono tratti da "Alla ricerca del tempo perduto" ed. Meridiani - Mondadori

"[...] i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre[...].In realtà essi non sono mai cessati; ed è soltanto perchè la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quelle campane di conventi che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera." (Vol. I - pag.46)


Che immagine sublime: le campane che perennemente suonano ma, considerate ormai cose ovvie, dimenticate nel clamore della vita, facenti parte del paesaggio uditivo, non ci provocano più emozioni. Eppure un giorno ci ritroviamo di fronte ad un' epifania che ci riporta a considerare in modo diverso certe immagini della nostra quotidianità e ci rendiamo conto che, forse, ogni giorno perdiamo qualcosa.
Proust sottolinea il dramma interiore del Narratore (colui che qui pensa) che ha vissuto con questa tristezza nel cuore e solo con il silenzio si è reso conto della propria condizione di umana miseria.
Queste poche righe contengono il dramma dell'uomo la cui vita è piena di immagini di plastica e che, nell'autenticità di un sospiro, perde la propria sicurezza e naufraga nella solitudine di un singhiozzo.

E mi viene in mente la Poesia di Montale "I Limoni"

Ma l' illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l' azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s' affolta
il tedio dell' inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l' anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità.

Nonostante quella di Montale sia una tematica diversa, metafisica, l'immagine dei limoni consolatori che si mostrano d'improvviso, casualmente, segue la stessa dinamica dell' epifania precedentemente sottolineata.
Molto si potrebbe dire sulle epifanie, ad esempio l'utilizzo che ne fa Joyce nel racconto "Eveline" di "Dubliners", o quello seguto da Woolf in "To Lighthouse" e molto si potrebbe dire sulla vita caotica e sempre uguale dei giorni nostri, quel meccanicismo quotidiano che porta all'alienazione... ne parleremo probabilmente più in là.


I motivi di un titolo

Il titolo del blog nasce dal canto XXVI della Divina Commedia in cui Dante e Virgilio incontrano Ulisse e Diomede.

I due viaggiatori si trovano nella bolgia dei consiglieri fraudolenti. Ulisse, infatti, aveva spinto i suoi "frati" a spingersi oltre le colonne d'Ercole (l'attuale stretto di Gibilterra) che gli antichi consideravano la fine del mondo, ed incitandoli con le seguenti parole:

"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
(Inf. XXVI vv. 112-120)

li spronava ad andare avanti, oltre l'ignoto. L'imbarcazione procede il suo viaggio, oltre i confini del mondo conosciuto, sino ad avvicinarsi alla montagna del Purgatorio. La gioia dura poco perchè dalla montagna un turbine di vento investe la nave che sprofonda nell'oceano.
Ulisse crede fermamente nell'uso della ragione e la sua è, più in generale, una tensione verso l'infinito che accomuna tutti noi uomini.
Il blog nasce dalla convinzione che la nostra Umanità abbia come fulcro la Ricerca. Nelle righe che scriverò cercherò di mettere insieme parole (in generale immagini) che mi permetteranno di delineare il viaggio di un uomo che forse non differisce, nella rovinosità, da quello di Ulisse.
L'itinerarium mentis ad Deum di cui Singleton parlava leggendo la Divina Commedia si riferisce al viaggio di ogni uomo verso qualcosa di inconoscibile a cui diamo il nome di Dio, quella luce splendente, come ci suggerisce l'etimologia, che noi filtriamo con diverse "lenti colorate" dandole nomi ed attributi differenti.
Il blog non ha assolutamente scopi gnoseologici ma è un puro raccoglitore di idee ed appunti di viaggio. Si parlerà poco dell'inconoscibile e molto delle opere letterarie che elevano l'animo dell'uomo dalla condizione di "bruti".