martedì, maggio 23, 2006

Sull'opera di Borges - II

Borges in La rosa gialla scrive, parlando di Giambattista Marino
(I passi sono tratti da Tutte le opere, ed. Meridiani - Mondadori)

"Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa, come poté vederla Adamo nel Paradiso, e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d'oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo."
(Vol. I - pag. 1141)

O anche in L'altra tigre:

La sera mi si diffonde nell'anima
e penso che la tigre dei miei versi
è una tigre di simboli e di ombre,
una serie di tropi letterari
e di memorie d'enciclopedia,
non il fatale tigre, funesto diamante
che, sotto il sole o la diversa luna,
va compiendo in Sumatra o nel Bengala
il suo rito d'amore, d'ozio e morte
(Vol. I - pag. 1205)
e continuando:

Cercheremo una terza tigre. Questa
sarà come le altre una figura
del mio sogno, un sistema di parole
umane e non la tigre vertebrata
che, oltre tutte le mitologie,
preme la terra. Lo so, ma qualcosa
m'impone questa avventura imprecisa
antica ed insensata, e io mi ostino
a cercare nel tempo della sera
un'altra tigre, che non sta nel verso.
(Vol. I - pag. 1207)
Nell'ultima parte dichiara lucidamente l'impossibilità di possedere quella tigre "che non sta nel verso", e definisce "antica ed insensata" la sua avventura di oltrepassare tale limite. Queste parole ci fanno riflettere sull'arbitrarietà che ha il linguaggio e di come questo ci permetta solo di indicare qualcosa e non di penetrarne l' essenza.
Forse con la realizzazione di una fitta rete di allusioni, come hanno fatto illustri poeti ( Pound, Eliot, Rilke...), o col verso ungarettiano che squarcia il silenzio, è possibile travalicare i limiti intrinseci del linguaggio.
Leggendo le precedenti righe di Borges mi viene in mente la conclusione de Il nome della rosa:

"stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus."

la cui traduzione è "l'antica rosa rimane nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi".
Questo è un verso del De contemptu mundi di Bernard de Morlay riadattato da Umberto Eco per concludere sapientemente la sua opera.
In realtà, l'originale a cui si ispira Eco, è una riflessione su come, delle cose del passato, non ci rimanga altro che il nome e non lo splendore.
La frase, vista sotto un altro punto di vista, racchiude un senso di profondo sconforto nei confronti dei limiti della conoscenza umana e della sua rappresentazione.
Il linguaggio rappresenta un modo che ha l'uomo di esprimere il mondo che lo circonda e se stesso, ma possiede dei limiti intrinseci ed il tentativo di oltrepassarli porta a risultati di vibrante "poesia".