venerdì, dicembre 28, 2007

Queneau: il tempo, la Storia, il sogno - I

Il grande scrittore francese Raymond Queneau è stato un grande innovatore della letteratura mondiale. Famoso è il suo divertimento letterario Esercizi di stile dove un brevissimo racconto di un viaggio in autobus diventa la materia con cui l'autore produce 99 variazioni sul tema rinarrando la storia con l'uso di tutte le figure retoriche, dei diversi generi letterari, giocando con le sostituzioni grammaticali ed altro ancora, dimostrando, in questo modo, le molteplici possibilità, le grandiosi potenzialità della lingua.
Ma Queneau oltre che un "teorico" è stato anche un grande scrittore che ci ha lasciato romanzi molto eleganti dal punto di vista formale e vorticosi da quello costruttivo.
In I fiori blu (i passi seguenti sono tratti dall'edizione de La biblioteca di Repubblica) il Duca d'Auge attraversa l'era moderna ricomparendo ogni 175 anni e Cindrolin vive negli anni Sessanta su un'arca ancorata nei pressi di Parigi. Le due storie si svolgono indipendentemente fino ad incontrarsi. Un romanzo sul sogno (il racconto dell'uno si colloca quando l'altro sogna), un racconto sul tempo che scorre inesorabile, sulla memoria.
"Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre. Avrò sognato?" (pag. 14)
L'espressione "fiori blu" appare due volte nel romanzo all'inizio ed alla fine quasi ad indicare una certa ciclicità ma anche un certo cambiamento. All'inizio il Duca d'Auge esclama: "Lontano! Qui il fango è fatto dei nostri fiori" ("Loin! Loin! Ici la boue est faite de nos fleurs") (pag. 8) che è un verso di "Moesta et errabunda" (I Fiori del male di Baudelaire) con l'unica differenza di un cambio di consonante ("Loin! Loin! Ici la boue est faite de nos pleurs!"). Come dice Calvino nelle note del traduttore, "In Q. il fango è quello della Storia che si disfa [...] e di cui tutto il profitto che si può ricavare sono "un po' di giochi di parole" e "un po' d'anacronismi"; ma è certo che questa fanghiglia contiene tanto i "fiori" degli ideali delusi quanto i "pianti" di cui la realtà della Storia è inzuppata" (pag. 221)
Alla fine del romanzo ricompare di nuovo l'espressione "fiori blu" quando il Duca d'Auge approda con la chiatta di Cidrolin trasformata in Arca di Noè per attraversare il diluvio ed arrivare alla meta sognata (uscire dal Tempo? o ricominciare l'Eterno Ritorno del tempo ciclico?)
"Uno strato di fango ricopriva ancora la terra ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando"(pag. 216)
Qui i fiori blu sono il colore che ridona vigore alla vita, la speranza che cerca di sollevarsi dalla fanghiglia.
Voglio terminare questo post ricordando cosa vi era scritto nel risvolto di copertina della prima edizione di Les fleurs bleues
"Secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d'essere una farfalla; ma chi dice che non sia la farfalla a sognare di essere Chuang-tzé? E in questo romanzo, è il Duca d'Auge che sogna di essere Cindrolin o è Cindrolin che sogna di essere il Duca d'Auge?"

domenica, dicembre 09, 2007

La vita in "Le anime morte"

Lo scrittore russo Nikolai Gogol nel 1842 scrisse l'opera destinata a diventare una delle sue più celebri: "Le anime morte" (passi tratti da Nikolai Gogol, Opere - Vol II, Meridiani Collezione). Nelle intenzioni dell'autore vi era l'idea di scrivere un grande poema russo che seguendo le orme della Commedia dantesca potesse rappresentare la vita della Russia a partire dalle dimensioni più basse, l'inferno appunto, di cui il testo pervenutoci rappresenta il compimento.
La trama è molto semplice: un giorno, nel capoluogo del governatorato di N. arriva l'assessore collegiale Pavel Ivanovič Čičikov che cerca di ingraziarsi tutti con i suoi modi gentili. Il suo scopo è acquistare delle anime morte, ovvero dei lavoranti che non risultano ancora depennati dal censimento ma che sono in realtà morti. L'apparente semplicità della trama si svolge come un affresco sarcastico, satirico ed a tratti grottesco della Russia di quegli anni: corruzione nell'amministrazione pubblica, donne per bene che pettegolano di cose che non conoscono creando maldicenze, il popolo che un istante prima è favorevole ad un signore a causa di qualche voce sul suo conto diventa diffidente ai limiti della maleducazione... Sicuramente indimenticabile è la parte in cui Čičikov si presenta ai diversi possidenti per convincerli a trattare la vendita delle anime ed ognuno è un modo di essere che Gogol ci fa sentire profondamente, ce lo rappresenta con le sue paure, le sue manie, i suoi difetti.
In un passo a pag. 125 Čičikov si trova a cena da Sobakevič, un possidente terrerio molto sospettoso e furbo, al suo tavolo oltre al padrone di casa ed alla moglie vi era una persona "della quale era difficile dire se fosse una signora o una fanciulla" e che Gogol rappresenta così:
Ci sono individui che esistono al mondo non come oggetti veri e propri, ma come macchioline estranee, o come chiazzettine su un oggetto. Siedono sempre allo stesso posto, tengono sempre la testa allo stesso modo, si è pronti quasi a scambiarli per un mobile, e si pensa che mai, da che sono nati, dalle loro labbra sia uscita una parola; (p. 125)
Gogol ci restituisce l'immagine di questa persona, che nel momento in cui abbiamo letto di lei già abbiamo dimenticato, una persona insignificante, che sembra non aver alcuna importanza nel racconto, ma che in realtà ci viene restituita in tutta la sua vitalità inerte, in tutto il suo essere, in modo molto efficace ed incisivo. Gogol riesce con poche pennellate a descrivere i personaggi in modo ineguagliabile e ci restituisce di loro l'anima, il corpo, tutto ma queste sono anime vive, sono individui che possiamo toccare ed a cui apparteniamo anche noi.

domenica, ottobre 28, 2007

Molto forte, incredibilmente vicino

Il commento di S. Rushdie al libro recita: "Ambizioso, pirotecnico, enigmatico...un risultato eccezionale". Libro costruito sulle diverse sensibilità, sui diversi stati d'animo, sulle sensazioni, sul riso e la commozione. Una catastrofe vista con gli occhi di un bambino, una giovane vita che palpita, soffre, si diverte.
Il protagonista, Oskar Schell, è un bambino molto intelligente e curioso di nove anni che si trova a vivere l'11/9. In realtà la tematica si allarga a comprendere altre catastrofi come il bombardamento di Dresda, Hiroshima, tutte vicende in cui i sopravvissuti hanno sviluppato problemi di relazione non riuscendo a sopportare l'idea di essere sopravvissuti.
In un passo conclusivo del libro vi è un dialogo tra Oskar ed un sopravvissuto di Dresda:
"Ho perso un figlio". "Veramente?"[..]"Come è morto?". "L'ho perso prima che morisse". "Come?". "Sono andato via". "Perchè?". Ha scritto: "Avevo paura". "Paura di cosa?". "Paura di perderlo". "Avevi paura che morisse?". "Avevo paura che vivesse". "Perchè?". Ha scritto:"La vita è più spaventosa della morte".
(pag. 346 - Molto forte, incredibilmente vicino. Ed. Guanda)
Il libro si basa sulla ricerca. Come in "Ogni cosa è illuminata" il protagonista era alla ricerca del suo passato attraverso una fotografia, qui Oskar non vuole far fuggire il ricordo, non vuole far svanire quello che sentiva per una persona cara che è venuta a mancare. Nella ricerca sente quel ricordo che lo segue e ne è appagato da un lato e tormentato dall'altro.
La storia, come in "Ogni cosa è illuminata" si intreccia con altre storie di sofferenza, di vita, di dolore. Sono bellissime le manie dei diversi personaggi, la loro caratterizzazione i loro tratti così definiti ed inconfondibili che ce li rende palpabili. Mi viene in mente il parallelo con "I sentieri dei nidi di ragno" di Calvino. Il tentativo di Pim di trovare un amico a cui far vedere i nidi, una persona di cui potersi fidarsi, la ricerca, il non comprendere alcune dinamiche della guerra, stimolano tenerezza, lo stesso sentimento che sentiamo seguendo le vicende di questo irritante, intelligente, triste, divertente ragazzino di nove anni. Oskar alla fine si rende conto alla fine che la vita non può che continuare, che non si può far altro che guardare avanti e dare la possibilità a se stessi di vivere.
Insomma un libro stupendo emblema dei tempi in cui viviamo veloci, spasmodici ma in cui anche una chiave può affascinarci e può farci ricordare che esistono cose per cui vale la pena battersi e che sono rinchiuse in noi stessi, sono le nostre paure, i nostri dolori, i nostri amori.


sabato, settembre 22, 2007

La morte della Pizia

Lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt nel 1976 scrive"La morte della Pizia" (i passi seguenti sono tratti da Racconti - Ed. Feltrinelli) un racconto in cui la sacerdotessa attuale devota ad Apollo (Pannichide), emette i suoi oracoli con irriverenza e capriccio. Un giorno gli si presenta il giovane Edipo e lei, con la solita aria divertita gli profetizza che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre, una cosa talmente assurda che in realtà si avvera, ma non come noi cari alla tragedia di Sofocle, ci aspetteremmo, ma in un modo del tutto inaspettato. La storia di Edipo, infatti, viene raccontata alla Pizia, ormai morente, dai diversi protagonisti da Meneceo (padre di Giocasta), da Laio (padre presunto di Edipo), da Edipo, da Giocasta (madre presunta di Edipo) ed infine dalla Sfinge.



In un vortice di intrecci, congetture, confessioni, si delinea un quadro della storia completamente diverso da quello che siamo soliti leggere nei libri di mitologia. Ognuno ha agito secondo interesse, desiderio, capriccio. Ogni storia sembra verosimile eppure il suo senso viene modificato dalla successiva fino ad arrivare alla conclusione che la Sfinge sarebbe la vera madre di Edipo con cui ha avuto rapporti amorosi e che il padre di Edipo sarebbe un ufficiale di Laio, comunque ucciso dal giovane. Anche se la storia non è quella "originaria" il vaticinio si è comunque avverato.
Il mito di Edipo ci pone di fronte ad un problema non risolto. Quello che sembrava in apparenza racchiude dentro di se un segreto che ne racchiude un altro, e come tante matrioske alla fine rimane il nulla, l'incertezza.
Dopo che ogni personaggio verrà alla Pizia morente raccontando la propria "verità", ammesso che sia verità quello che raccontano, rimarranno Tiresia e Pannichide soli. Il cieco (anche se confesserà di non esserlo) dirà:
"Non crucciarti vecchia, lascia che sia ciò che è stato comunque diverso, e che continuerà a risultare sempre diverso, quanto più indagheremo. [...] La verità esiste solo nei limiti in cui la lasciamo in pace. [...] Ci siamo trovati di fronte alla stessa inquietante realtà, che è imperscrutabile come l'uomo che la produce" (pag. 251)
Durrenmatt rappresenta l'inconoscibilità dell'animo umano, le sue debolezze, le sue paure, le sue avidità, le sue mostruosità. Vi sono due mondi contrapposti: quello di Pannichide che profetizza con irriverenza e capriccio, e quello di Tiresia più sottomesso al calcolo politico ed all'interesse, eppure entrambi con uno scopo simile: "conferire una vaga parvenza d'ordine, una lieve traccia d'una qualche legge nel fluire tetro, lascivo e spesso sanguinoso degli eventi che ci è piombato addosso, trascinandoci con sè, proprio perché noi, anche se un poco soltanto, abbiamo tentato di arginarlo" (pag. 251)



giovedì, agosto 23, 2007

Il braccio penzolante

Marcenda, protagonista femminile dello stupendo romanzo di Josè Saramago, "L'anno della morte di Ricardo Reis" ha un braccio inerte a seguito della morte della madre, almeno lei sembra ravvisare un legame tra i due eventi. Un braccio che porta con se, cura come se fosse un gattino e che le dona, agli occhi del dottor Ricardo Reis, il protagonista del racconto (uno degli eteronimoi del poeta Fernando Pessoa), un'attrattiva notevole.
Il medico spesso si trova a parlare con il fantasma del poeta che gli dirà
“…solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia."
La solitudine, quindi, è l' incapacità di essere vicini a se stessi. Anche Marcenda forse sentiva estraneo quel braccio, lo sentiva distante da sè. Un'analoga situazione la ritroviamo nel romanzo d'esordio di Jonathan Safran Foer "Ogni cosa è illuminata" dove il nonno del protagonista (l'Eroe) possiede un braccio atrofizzato perchè non gli è stato permesso di nutrirsi al seno della madre e questo mancato nutrimento si è ripercosso su un'assenza di crescita di una sua parte del corpo. Questo braccio penzolante lo rende attraente agli occhi di molte donne con cui si trova ad avere rapporti senza peraltro riuscire a raggiungere l'orgasmo un'altro possibile effetto della mancata nutrizione.
Questi due pezzi di carne inerte, questi due ammassi corporei sembrano quasi non voler reagire semplicemente perchè non vogliono partecipare alle crudeltà del mondo a cui il resto del corpo è costretto ad assistere. In ambedue i libri si parla di guerra, nel primo dell'ascesa del Nazismo, nel secondo della sua folle furia distruttiva. A volte forse di fronte alle atrocità del mondo vorremmo chiuderci, non guardare, eppure questo non può che essere un atteggiamento irresponsabile.




lunedì, luglio 30, 2007

Ingmar Bergman

Oggi è mancato Ingmar Bergman, grande regista ma soprattutto poeta della cinepresa che ha saputo infondere nei suoi film il senso di strazio, di tristezza, di metafisica ricerca presente in ognuno di noi. Un uomo ineguagliabile che ci ha donato perle di rara bellezza: Il settimo sigillo, Persona, Sussurri e Grida, Il posto delle fragole, Fanny & Alexander e continuare sarebbe inutile dato che ogni sua opera possiede potenza evocativa, profondità esistenziale che diviene vuoto angosciante una volta conclusa.

giovedì, luglio 05, 2007

Vergogna

Lo scrittore sudafricano J.M. Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, nel suo libro "Vergogna" racconta la storia di un professore universitario, David Lurie, vecchio eroe, che cerca di difendere un'idea, la propria libertà di venire assediato da Eros, al prezzo di perdere il proprio posto di lavoro, di infangare il proprio nome. Dall'altro vi è la figlia, Lucy, che pur di non abbandonare la propria vita, quella che si è costruita con sacrificio e passione, decide di farsi proteggere da un ambizioso fattore che la vede, come tutti del resto, come un'intrusa.
Il peso che Lucy, eterno femminino, doppiamente intrusa (come donna e come bianca in un mondo maschilista e nero) deve subire è alto. Vi è un'analisi sociale sul contrasto tra due culture, quella sudafricana e quella dei bianchi, in cui i secondi devono espiare la colpa dei loro padri, colonizzatori e sfruttatori.
Per l'argomento trattato (l'amore che scandalizza) si può vedere una vicinanza con "La macchia umana" di Philip Roth dove il professore deve combattere con la falsità e poi con il pregiudizio. Interessante come in "La Macchia Umana" la donna con cui il professore inizia una relazione si chiami Faunia, indicando già nel nome il proprio diretto contatto con la passione, la carnalità, la terra, cosa che anche "l'amante" di Lurie possiede. Faunia trova conforto nella cornacchia che ha addosso quella macchia in cui si rimane irrimediabilmente intrappolati quando si ha un contatto con l'uomo, quel "peccato originale" che è l'umanità, mentre Laurie riscopre la pietà nel vedere i cani uccisi dalla veterinaria con cui collabora.
Il contatto con gli animali, la cornacchia (nel libro di Roth) e i cani (nel libro di Coetzee), con la loro "esistenza autentica" permette ai protagonisti di sentire pienamente il sentimento della pietà anche per se stessi, così da percepire più intensamente la propria miseria.


martedì, maggio 08, 2007

Come in uno specchio

Nel film "Come in uno specchio" di Bergman la protagonista femminile, Karin, appena dimessa da un'ospedale psichiatrico, vede due mondi, il primo è quello a cui appartengono suo padre, suo fratello e suo marito, il secondo invece è formato da figure oniriche.
E' la screpolatura di una carta da parati di una soffitta che permette a Karin il passaggio da un mondo all'altro, che le permette di osservare persone in riverente attesa dell'arrivo di Dio.
Il film è intriso di attesa (sembra quasi di partecipare alla rappresentazione dell'"Aspettando Godot"), di malinconia. Come negli altri film Bergman non dona mai delle risposte, ma lascia lo spettatore in sospeso, gli dona quel senso di inquietudine metafisica di cui ogni sua inquadratura sembra intrisa.
Karin, in preda ad un'altra crisi, si trova nella soffitta dove, in attesa e in ginocchio insieme al marito, vede un ragno con occhi freddi ed assenti che tenta di possederla ma che lei scaccia energicamente: era Dio.
Trascurando le possibili interpretazioni sottese alla visione, mi interessa ricordare un pezzo di dialogo tra il padre (David) ed il fratello (Minus) di Karin in cui viene indicata una visione particolare di Dio (dal sito Wings Of Desire:Cinema - Ingmar Bergman):
D - E' scritto che Dio è amore.
M - Per me queste sono solamente parole e assurdità.
D - Aspetta. E non interrompermi. Voglio solo darti un'idea della mia speranza.
M - E sarebbe l'amore di Dio?
D - E' la certezza dell'esistenza dell'amore come qualcosa di reale nel mondo degli uomini.
M - Ed è naturalmente uno speciale tipo d'amore che viene preso in considerazione.
D - Ogni tipo d'amore, Minus! Il più alto e il più basso, il più povero ed il più ricco. Quello ossessivo e quello egoistico. Tutti i tipi d'amore.
M - Il desiderio d'amore.
D - Il desiderio ardente e la rinnegazione. Il dubbio e la fede.
M - Così l'amore dovrebbe essere la prova?
D - Non possiamo sapere se l'amore dimostri l'esistenza di Dio oppure se l'amore è Dio stesso. Ma non è così importante.
M - Per te l'amore e Dio sono lo stesso fenomeno.
D - Il mio vuoto e la mia sporca disperazione trovano sostegno in questo pensiero. All'improvviso il vuoto si trasforma in ricchezza e la disperazione in vita.
M - Le tue parole sono terribilmente irreali, papà. Ma vedo che credi a quello che dici. E questo mi fa tremare tutto il corpo. Se è come tu dici, allora Karin dovrebbe essere circondata da Dio, dato che noi la amiamo.
D - Sì.
M - Questo può aiutarla?
D - Credo di sì.
La certezza che l'amore esista veramente nel mondo come realtà tangibile è la speranza che permette a David di vivere e sentire meno vuota la propria vita. In questo dramma talmente umano, le ultime parole di Minus saranno "Ho parlato con papà" , chiusura emblematica di un film in cui la distanza tra i quattro protagonisti risulta incolmabile, in cui la schizofrenia di Karin, l'assenza del padre, la solitudine del fratello, l'inettitudine del marito, rappresentano le loro impossibilità relazionali.

sabato, marzo 24, 2007

Persona

Bergman, grande regista svedese, nel suo film Persona (1967), racconta di un'attrice, Elisabeth, decisa a rinchiudersi nel suo mutismo e della sua giovane infermiera, Alma. Le due donne accomunate da un rifiuto verso i propri figli (la prima avrebbe voluto nascesse morto, la seconda effettua un aborto), sono differenti nel modo di vedere la vita: la prima si è rinchiusa nel silenzio per non continuare a fingere, la seconda ha deciso di farlo, conservando dentro di se' un segreto mai svelato. Molte sono le problematiche sollevate da questo stupendo film: il tema della maschera, della finzione, dell'angoscia esistenziale, i drammi dell'inconscio, del doppio.
L'infermiera legge il passo di un libro che non condivide a differenza di Elisabeth:
"L'ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l'angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede e del nostro dubbio nell'oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della solitudine e della costante paura che ci possiede"
Il "tema religioso", sempre caro a Bergman, riaffiora qui per impreziosire ulteriormente il film.
La vita dell'uomo, secondo Elisabeth, è costantemente avvolta nell'oscurità, nel dubbio, in continuo conflitto con la fede, affondata nella solitudine e nella paura in cui qualsiasi parola non è altro che una maschera che ci fa compagnia.
"...Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento.Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa...Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità..."
Queste le parole che la dottoressa dice ad Elisabeth prima di mandare le due donne nella sua casa al mare.
Stupenda è la scena finale in cui la pellicola prende fuoco, ponendoci di fronte alla finzione cinematografica, all'impalpabilità di quelle esistenze di cui abbiamo visto una parte, ci pone di fronte al dramma del silenzio, in cui, l'ultima parola di Elisabeth racchiude una sconcertante verità : "Nulla".

mercoledì, febbraio 28, 2007

Il bene ed il male

Rushdie, autore indiano contemporaneo, nei suoi "Versetti satanici" presenta due uomini in cui la trasformazione esteriore della figura (seguendo il filone del realismo magico caro a Marquez) sembra presagire una modifica interiore, morale che in realtà non si attua come ci aspetteremmo. Romanzo contro l'apparenza, contro gli estremismi, in nome della ragione, è ricco di riferimenti coranici, tanto da renderlo blasfemo per i musulmani. Presenta delle affinità stilistiche ai grandi del nostro tempo: Joyce (chi non gli è debitore), Marquez, Borges, Bulgakov e tematiche con "Il ritratto di Dorian Gray", "Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde ", il "Faust", "Il Maestro e Margherita". L'accostamento degli avvenimenti dei due protagonisti e della storia di Mahound (il profeta Maometto) ricordano moltissimo gli inserti della vita di Ponzio Pilato, e quindi gli ultimi momenti di vita di Yeshua Hanozri (Gesù), che il narratore russo inserisce, con straordinaria limpidezza, nello svolgimento del racconto.
Leggendo l'opera di Rushdie si riflette anche sulla rivelazione qui trasformata in parola di compromesso, sulla parola di Dio, relegata a diventare trasportatrice di desideri umani. Viene rappresentata la lotta per eccellenza, quella tra il bene ed il male in cui, a volte, i confini non sono poi tanto definiti.
Ricordo a tal proposito la risposta di Mefistofele alla domanda di Faust su chi lui fosse, citata anche da Bulgakov nel suo capolavoro:
"Parte di quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il bene."

martedì, gennaio 02, 2007

Horcynus Orca - I

Stefano D'Arrigo, fine letterato morto nel 1992, dopo 20 anni di correzioni consegna, nel 1975, il suo capolavoro: Horcynus Orca (i passi sono tratti dall'Edizione Rizzoli).
Il libro in cui ogni pagina è carica di poesia, ogni riga è sapientemente composta, ci pone di fronte al mistero del Mare, al suo arcano silenzio che racchiude storie al limite del fantastico dove i delfini, le famigerate "fere", decidono di morire lanciandosi nel fuoco purificatore di Vulcano, in cui le Femminote si sentono sempre più legate alle navi con cui viaggiavano tra Calabria e Sicilia tanto da sentirsene "vedovate" dopo il loro affondamento, dove il combattimento dei pescatori ("i pellisquadre") con le "fere" sembra quasi un combattimento tra antichi eroi.
Ogni pagina dimostra un sapiente utilizzo della lingua, soggetto proteiforme, in continua evoluzione, dove la parola non è solo veicolo di informazione ma diventa essa stessa opera d'arte, degna di essere ricordata. Questa lingua, che ricorda Joyce per l'innovazione, Verga per la carnalità, Carlo Levi per la poeticità, è ricca di terra, di acqua, di sentimento.
Riporto un passo in cui è il silenzio il protagonista principale, quel silenzio che ci pone di fronte ai misteri della vita e della morte, che ci fa sentire ogni giorno più uomini, ogni attimo più eterni.

"Il primo e più impressionante segno della carestia è sempre questa morìa di parole, e non di parole di discorsi, ma di parlottamenti e sgridii e incitamenti del varo: oooh....issa, mo', ora...come questi, tanto per dire, e persino degli elementari saluti, bongiorno, bonanotte, benedìcite [...] Il silenzio viene dal mare e pare, certe volte, che i pellisquadre varano solo per farne delle grandi imbarcate e di lontano, a giudicare dalla pesantezza della remata, verrebbe da credere che fecero finalmente scialibi di pesce: e poi, mentre disarmano, pare veramente di sentirlo che si rovescia sulla riva e fa un gran fracasso di taciturnità all'orecchio [...] Il silenzio si sprigiona di là, dalle acque incarognite e tocca terra, entra nelle case, contagiando tutto e tutti, come un vento colloso che appuzzisce il fiato e s'attacca strettamente alle labbra, e queste si seccano e piagano come provate da una sete di mare, prolungata e incattività dall'acqua salata: per la lingua invece, pare nutrimento ricco e malvagio, cresce, si gonfia in bocca, si muove come per scappare e col suo contatto velenoso dà bruciature al palato in tutto simili a quelle che dà medusa, dolorosissime." (pag. 376)